Linkedin: lo strumento ideale per una strategia di Employee Advocacy

Fidarsi di un’azienda è bene, ascoltare i suoi dipendenti è meglio!

Quando un dipendente arriverà a sostenere spontaneamente e pubblicamente i valori della propria azienda, quell’azienda avrà raggiunto uno degli obiettivi più importanti: avere un ambassador di brand motivato e credibile agli occhi del pubblico. Questo è il cuore di ciò che viene definita “employee advocacy”.

Oggi parleremo di:

  • Dipendenti VS Dirigenti: questione di fiducia
  • Employee advocacy: una strategia di marketing con obiettivi precisi
  • L’employee advocacy su Linkedin: una scelta ideale
  • Come agevolare l’employee advocacy: gli strumenti dell’azienda
  • Un esempio pratico: Amanda, ambassador de LO Studio
  • Avere degli ambassador tra i propri dipendenti: rischi e problemi connessi

Dipendenti VS Dirigenti: questione di fiducia

La questione è molto semplice: se neanche i vostri collaboratori più stretti si sentono in dovere di parlare bene della loro stessa azienda, allora, non solo state sbagliando qualcosa, ma vi state anche tirando la zappa sui piedi.

In un mondo in cui la fiducia in un brand va conquistata e mantenuta a suon di visibilità, autorevolezza e reputazione, i dipendenti di un’azienda possono, infatti, giocare un ruolo decisivo, in veste di primi ambasciatori e promotori del marchio e dei valori aziendali.

A dimostrazione di questo, una ricerca condotta da Edelman, che mostra come il 74% degli italiani si fida maggiormente dell’opinione dei dipendenti di un’azienda rispetto a quella del CEO.

Ma non solo, perché le scelte dei consumatori risultano influenzate per ben il 66% da ciò che questi conoscono dell’azienda in merito a etica, trasparenza e ambiente lavorativo. (Dato Reputation Institute)

Se questi numeri sono sicuramente sintomi evidenti di quanto poco i consumatori si fidino delle aziende e dei loro colletti bianchi, d’altro canto dimostrano anche quanto gli stessi consumatori tendano a fidarsi più di chi viene percepito come un loro pari, e cioè il dipendente.

Questo è il principale motivo per cui la cosiddetta employee advocacy diventa fondamentale in una buona strategia aziendale.

Employee advocacy: una strategia di marketing con obiettivi precisi

L’employee advocacy, quindi, non è altro che una strategia ragionata e pianificata utile a incentivare i dipendenti di un’azienda a diffondere, in qualità di primi ambassador del brand, contenuti, opinioni e informazioni positive legate al marchio, attraverso le loro piattaforme social personali.

Questo sistema porta a rendere accattivante e interessante il brand agli occhi non solo dei dipendenti attuali, ma anche di potenziali candidati a ruoli in azienda e, di riflesso, anche dei clienti

Gli intenti di questa tecnica di marketing puntano a far leva sulle interazioni spontanee e autentiche dei social media, nell’ottica di costruire o rafforzare la notorietà del marchio e mantenere la fiducia nei confronti dell’azienda.

L’impatto di una strategia di questo tipo ha, infatti, ricadute positive non solo sulla partecipazione e il coinvolgimento spontaneo dei dipendenti alla comunicazione aziendale, ma può portare sul lungo periodo anche a un vero e proprio vantaggio competitivo in termini di vendite e reclutamento delle risorse umane, oltre che apportare benefici in termini di umanizzazione del brand e diffusione di una cultura aziendale positiva.

Sono tre le funzioni aziendali che traggono maggior beneficio dall’employee advocacy:

  • Marketing: la copertura di una comunicazione aziendale aumenta esponenzialmente, di pari passo con la visibilità del brand, perché i dipendenti, a livello complessivo, hanno sui social una rete di contatti decisamente più grande rispetto all’azienda. I post e i contenuti pubblicati, di conseguenza, registreranno una percentuale maggiore di click in rapporto alle visualizzazioni, rispetto a quella ottenuta dall’azienda.
    In altre parole, i numeri macinati sui social da un profilo personale sono spesso più alti rispetto alla pagina aziendale, raggiungendo oltretutto contatti nuovi e diversi rispetto a questo. Se poi moltiplichiamo questo dato per tutta la compagine aziendale, si capisce come il discorso si allarghi ancora e aumenti i propri effetti.
  • Vendite: la condivisione da parte dei dipendenti di contenuti di qualità che forniscano informazioni sul brand, su prodotti o sulla risoluzione di problemi ad essi legati, saranno più facilmente raggiungibili dai potenziali clienti, in quanto gli stessi profili social personali lo sono. Ciò porta a un maggiore coinvolgimento dei potenziali clienti nei confronti della persona-dipendente e, di riflesso, dell’azienda che i post del dipendente “promuovono”.
  • Recruitment: le aziende con un efficace programma di employee advocacy risultano più attrattive del 58% e assumono il 20% in più di personale altamente qualificato, rispetto a chi non adotta questa strategia. (Dati Influencer Marketing Hub)

Insomma, se un dipendente parla bene del proprio luogo di lavoro, questo diventa maggiormente appetibile anche per altri candidati, che accorreranno più numerosi, fornendo all’azienda una maggiore possibilità di scelta e consentendole di accaparrarsi i talenti migliori.

L’employee advocacy su Linkedin: una scelta ideale

Ora che abbiamo visto quanto i profili social personali dei dipendenti di un’azienda possano diventare fondamentali per il brand, cerchiamo di capire quale social sia il più adatto per spingere con questa strategia.

Passando al vaglio i vari social network in circolazione, la scelta ricade inevitabilmente su Linkedin, in quanto social dedicato specificatamente al mondo del lavoro, all’incontro tra domanda e offerta di competenze e a quello tra datori di lavoro, potenziali dipendenti e pubblico. Per tutto ciò che è stato detto in precedenza, basterebbe questo a renderlo perfetto per una strategia di employee advocacy, ma in realtà Linkedin offre anche altro.

Innanzitutto, il suo algoritmo premia maggiormente i profili personali piuttosto che le pagine aziendali. La consapevolezza che i profili dei propri dipendenti “valgano” più di quello dell’azienda dovrebbe incentivare quest’ultima a renderli degli ambassador del brand.

In secondo luogo, Linkedin è un vero e proprio strumento ibrido, una via di mezzo tra piattaforma personale e commerciale. Su questo social media, infatti, la correlazione tra profili personali e pagina aziendale è ovviamente molto stretta, tanto che un contenuto di qualità postato dal Signor X sarà visto inizialmente come un contenuto personale, come un’opinione vera e spontanea di chi lo posta, e solo dopo, in chi legge, scatterà l’identificazione di questa persona nel brand che “sponsorizza”, con tutte le conseguenze positive sulla fiducia e la visibilità che abbiamo visto.

A conferma di queste affermazioni alcune cifre riportate da Sproutsocial:

  • I contenuti aziendali pubblicati dai dipendenti vengono condivisi 24 volte di più di quelli pubblicati dall’azienda;
  • I nuovi contatti commerciali provenienti dai profili dei dipendenti hanno 7 volte più possibilità di diventare clienti;
  • I clienti suggeriti da un dipendente hanno il 37% in più di fidelizzazione;
  • Il 50% dei dipendenti che condivide contenuti sui social lo fa con contenuti aziendali.

Come agevolare l’employee advocacy: gli strumenti dell’azienda

Ciò che distingue l’employee advocacy dalle altre forme di pubblicità “spudorata” è che i dipendenti sono portati a postare spontaneamente contenuti legati all’azienda, perché credono veramente in essa e nei suoi valori e perché ritengono che il luogo in cui lavorano sia davvero di qualità.

La domanda che deve porsi un imprenditore, a questo punto, è: come posso agevolare la nascita di questo sentimento favorevole nel mio dipendente? Come lo porto a diventare “spontaneamente” un ambassador del mio brand?

La risposta va cercata nel coinvolgimento del dipendente, raggiungibile utilizzando diversi sistemi che consentono, in definitiva, di fare branding interno, prima che esterno:

  • Condividere obiettivi e risultati aziendali con tutti i dipendenti e coinvolgerli attivamente nell’elaborazione della strategia di comunicazione aziendale;
  • Dare maggior trasparenza alle comunicazioni interne;
  • Offrire un ambiente di lavoro piacevole;
  • Coinvolgere anche i piani alti in attività formative dedicate all’employee advocacy e destinate ai dipendenti;
  • Cercare, in base al profilo Linkedin personale, i dipendenti più adatti a divenire ambassador aziendali;
  • Fornire ai dipendenti gli strumenti per un allineamento grafico e contenutistico dei profili personali alla pagina aziendale;
  • Creare occasioni, iniziative ed eventi aziendali che possano essere raccontati con favore dai dipendenti;
  • Fornire formazione e supporto interno per la revisione dei contenuti pubblicati sul profilo personale;
  • Aiutarli a valutare i risultati ottenuti da un post personale e come questi abbiano impattato sull’azienda;
  • Garantire un piano editoriale ricco di contenuti di qualità.

Proprio in riferimento all’ultimo punto dell’elenco, diventa fondamentale curare innanzitutto la pagina aziendale di Linkedin, prima vera fonte di riferimento per i dipendenti, dalla quale possono attingere contenuti di qualità, commentarli, prenderne spunto per creare post propri o condividerli con i propri contatti e dar loro visibilità.

A tal proposito, diventa altrettanto necessario mettere i dipendenti in condizione di compiere tutte queste azioni immediatamente dopo la pubblicazione del contenuto da parte dell’azienda, nel momento cioè in cui si concentra la maggior parte delle interazioni, così da aumentare esponenzialmente le visualizzazioni e ulteriori commenti, potenziandone l’effetto.

L’azienda potrebbe allora trovare diversi sistemi per dare il “via libera” ai propri dipendenti e tirarli direttamente in causa:

  • Notificare loro la pubblicazione di ogni post pubblicato;
  • Taggare o menzionare nel posto nei commenti i dipendenti interessati;
  • Creare conversazioni di gruppo su Linkedin dove condividere e commentare i post pubblicati.

Un esempio pratico: Amanda, ambassador de LO Studio

E dopo tanta teoria, passiamo alla pratica e spieghiamo in che modo noi de LO Studio abbiamo utilizzato alcuni di questi consigli sull’employee advocacy per “eleggere” Amanda come nostra ambassador su Linkedin.

Innanzitutto, abbiamo cercato di capire quali, tra dipendenti e collaboratori, potessero svolgere al meglio questo ruolo. Michele poteva essere la persona giusta, perché molto attivo su Linkedin con post personali di qualità, anche non direttamente connessi alla sfera “Web marketing”, ma comunque sempre interessanti. Unico problema: lui è uno dei boss de LO Studio, di conseguenza… scartato! Ricordate? Il pubblico si fida maggiormente dei dipendenti piuttosto che dei vertici aziendali!

Stesso discorso, quindi, anche per gli altri due soci de LO Studio, che sono anche meno attivi sui social e quindi ancor meno indicati al ruolo di ambassador.

Andando, quindi, in ordine cronologico, abbiamo cercato chi, tra gli attuali dipendenti era da più tempo in azienda, posando così gli occhi sul profilo linkedin di Amanda e, in quel momento, i pezzi del puzzle hanno cominciato a unirsi spontaneamente.

Vediamo che caratteristiche, utili allo scopo, possiede Amanda:

  • È in azienda sin dall’inizio e l’ha vista crescere nel tempo, condividendone i successi e gli ostacoli durante il percorso. Quindi, il suo attaccamento all’azienda può considerarsi spontaneo e genuino;
  • Crede nell’azienda e sa quanto conti il proprio lavoro in essa e quali risultati porta ogni giorno;
  • Non fa parte della dirigenza. È una dipendente;
  • Dopo Michele, è sicuramente una delle più attive tra noi sui social a livello personale.
  • Il suo profilo Linkedin ha contatti diversi rispetto a quelli della pagina aziendale, di conseguenza, allarga automaticamente la copertura dei post e dei valori aziendali che condivide;
  • I suoi contenuti su Linkedin sono vari, ma sempre interessanti;
  • Utilizza naturalmente nei suoi post un linguaggio e uno stile unici, che ben si adattano, però, alla comunicazione de LO Studio.

A queste caratteristiche personali, si aggiunge poi l’attività di ambassador vera e propria che Amanda compie, consapevolmente o meno, con il suo profilo e che consiste in:

  • Repost tempestivi di contenuti Linkedin aziendali;
  • Commenti personali a post, newsletter e articoli di blog aziendali;
  • Post originali su attività e iniziative aziendali;
  • Il suo profilo Linkedin utilizza la grafica de LO Studio. Amanda dimostra di identificarsi nell’azienda;
  • Rimane sempre sé stessa, anche nei post da ambassador.

Cosa comporta tutto questo? Che il messaggio aziendale, passato sul profilo di Amanda secondo queste diverse declinazioni, venga considerato a priori dai suoi contatti personali come messaggio di qualità, tanto quanto tutti gli altri post personali che non riguardano LO Studio.

Avere degli ambassador tra i propri dipendenti: rischi e problemi connessi

Insomma, l’employee advocacy sembra proprio essere la soluzione a tutti i problemi di visibilità e fiducia di un’azienda, tanto che i più cinici potrebbero riassumerla così: “Facciamo fare il lavoro sporco ai dipendenti e portiamo a casa il risultato”. E, in effetti, finché questo sta bene sia all’azienda che ai dipendenti, tutto fila liscio, perché tutti sono contenti.

Purtroppo, però, l’employee advocacy, nasconde un lato oscuro e decisamente rischioso, soprattutto per l’azienda.

Innanzitutto, questa non può obbligare un dipendente a diventare un ambassador, né a postare contenuti specifici sul proprio profilo, se questo non è d’accordo. Tutto il discorso sull’employee advocacy si genera, infatti, spontaneamente nel dipendente, nel momento in cui è a suo agio nell’azienda e ne condivide i valori e le strategie, tanto da sentirsi sinceramente portato a parlarne ad altri.

L’unica arma nelle mani dell’azienda, in questo caso, è la possibilità, come visto, di incentivare e stimolare un maggior coinvolgimento del dipendente, agevolando in lui un sentimento positivo nei confronti dell’azienda.

Nel nostro caso, non c’è stato bisogno di stimolare Amanda, perché ha sempre fatto, inconsapevolmente o meno, da ambassador per LO Studio. L’azienda l’ha però agevolata, consentendogli di brandizzare il proprio profilo con il logo aziendale e riconoscendogli ogni giorno il valore del suo lavoro.

Il rischio più grosso di una politica di employee advocacy sui social si ha quando il dipendente smette di essere dipendente. In caso di licenziamento o dimissioni, infatti, i contatti del suo profilo Linkedin rimangono su questo e l’azienda li perderà. Non solo, ma il profilo dell’ex dipendente potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio, nel momento in cui questo, deluso dall’esperienza in azienda, inizi a parlarne male, trasformandosi da ambasciatore a detrattore e portando con sé tutti i propri contatti che, ricordiamo, lo reputano sempre e comunque più credibile dell’azienda.

Un’altra questione spinosa per l’azienda è che il profilo del dipendente rimane sempre di sua proprietà. Di conseguenza, l’azienda non avrà mai il reale controllo delle azioni del dipendente. Non potrà decidere cosa posterà il dipendente. Anche in questo caso, l’azienda potrà limitarsi a monitorare le pubblicazioni del collaboratore, cercando di prevenire contenuti indesiderati.

E come si prevengono i contenuti indesiderati? In un unico modo: facendo sposare al dipendente la propria causa e i propri valori, per far sì che si senta stimolato a parlar bene e con sincerità del luogo in cui lavora.